di Roberto Masiani e Beatrice Loreti
(articolo pubblicato su SATI – Rivista dell’Associazione per la Meditazione di Consapevolezza A.Me.Co. – n.2 maggio-agosto 2015, www.associazioneameco.it)
Strategie Elusive
Sono diverse le strade che percorriamo per non confrontarci con la sofferenza che abita il nostro mondo interiore. Una delle più frequenti è l’interazione con l’altro, in varie forme, ma qui ci interessa in particolare la relazione sentimentale di lungo periodo tra adulti … Eh si! Perché la relazione di coppia viene usata, molto più spesso di quanto possiamo immaginare, come strumento per tentare di eludere un rapporto diretto e pienamente responsabile con la sofferenza più profonda. Nel nostro lavoro vediamo che molte difficoltà nelle relazioni derivano dal desiderio e dal tentativo, per lo più non consapevole, di fare in modo che l’altro “faccia qualcosa per farci stare meglio” e spesso finiamo per usarlo e manipolarlo a questo scopo.
In realtà sono numerosi e molto sofisticati i comportamenti che, inconsapevolmente, adottiamo per servirci dell’altro nel tentativo di alleviare il nostro malessere. Nell’interessante articolo comparso sul primo numero di Sati del 2015, Corrado Pensa ci ricorda come nelle avversità vi sia sempre una componente personale di attaccamento e avversione. Perciò le avversità sono un’occasione preziosa per riconoscere in noi stessi, non nell’altro, le cause del nostro malessere. (1) Infatti ci fa notare che spesso “non abbiamo nessuna comprensione del fatto che questa situazione di attaccamento e avversione, che ci appare così normale, sia in realtà una trappola, perché è capace di generare soltanto dukkha” (altra sofferenza). (2) Quando finalmente ce ne rendiamo conto è una svolta decisiva, che consente di orientarci verso il benessere. Superbia e paura ci impediscono di guardare a noi stessi, ma tornando ad essere umili possiamo neutralizzare la paura di non essere adeguati e iniziare un percorso di crescita che sia profondo, ampio e duraturo, come sottolinea il maestro tibetano Traleg Kyabgon. (3)
È come sfidare un drago con molte teste dove ognuna sputa veleno e fiamme. Non si tratta di tagliare le teste, ma di carpire il loro segreto per disinnescare il pericolo e andare oltre. La prima testa ci vuole impedire di vedere che la motivazione del nostro comportamento elusivo è la nostra stessa paura di scoprirci inadeguati, di vedere e toccare il malessere in noi stessi. Se spegniamo il fuoco della prima e andiamo a vedere più in profondità, ci accorgiamo che la seconda testa cerca di non farci sentire come, con il nostro comportamento abituale, stiamo generando altra sofferenza. Sembra un paradosso, eppure, per paura di soffrire, adottiamo comportamenti che nel corso del tempo producono conseguenze ancor più dolorose. Queste sono strategie inefficaci, perché non si confrontano con la reale difficoltà, tendono ad evitarla e dunque non la risolvono, impedendo anche la crescita personale. Il malessere può essere legato a una emozione, un ricordo, un pensiero, un’immagine, di solito un insieme di tutto ciò. Lo possiamo definire un complesso negativo, che percepiamo cioè come pericoloso, perché per noi particolarmente difficile da gestire. Negativo perché è in contrasto con il bisogno naturale di stare bene e perché nega il nostro benessere. Quando il nostro intuito percepisce, molto prima della ragione, la possibilità di incontrare un complesso negativo, cominciamo a provare un disagio, un allarme, una sensazione di ansia. La nostra mente è poi talmente efficiente che, quando la consapevolezza e l’esperienza dell’adulto non sono ancora completamente formate, si abitua ad attivare meccanismi molto sofisticati di evitamento, per scongiurare il pericolo grave di incontrare una sofferenza che non siamo in grado di gestire. Nella così detta età evolutiva le strategie di evitamento sono quanto di meglio la mente riesca ad elaborare per evitare di incontrare la sofferenza. Esattamente come, secondo la leggenda, fece il padre di Siddharta, il futuro Buddha, quando il figlio era ancora un giovane ragazzo. (4) Quel malessere più profondo che non vogliamo incontrare è ben presente nel nostro mondo interiore, ma se non lo teniamo nella luce della consapevolezza, viene gestito esclusivamente con le risorse della parte inconsapevole della nostra mente, che continua a seguire per abitudine le strategie di evitamento.
Per attivare altre risorse ed integrare l’elaborazione dell’esperienza in un modo che potremmo definire più evoluto o adulto, è necessaria la consapevolezza. (5) Può essere necessario rinviare l’incontro con le difficoltà quando ancora non siamo pronti, ma in seguito continuare ad eluderle ci impedisce di trovare un benessere duraturo e incondizionato.
GIOCARE A SCARICA BARILE NELLA RELAZIONE SENTIMENTALE
Nelle relazioni di coppia ci capita molto spesso di trovare una strategia di evitamento che noi definiamo: giocare a scarica barile. (6) Accade quando ce la prendiamo con l’altro per una sua caratteristica, o per un suo comportamento abituale. La mente è talmente abile e attenta a proteggerci dall’incontro con i nostri complessi negativi, che sul piano razionale e cosciente siamo assolutamente convinti che il problema sia nell’altro. Al punto che siamo anche disposti ad affrontare interminabili discussioni per dimostrarlo. L’esperienza ci appare capovolta, come vedere il Sole che gira intorno alla Terra. Questo “gioco” molto spesso è reciproco: infatti può accadere che il nostro partner faccia la stessa cosa nei nostri confronti. Sappiamo bene, per esperienza personale, come, agendo secondo questa modalità, si alimenti una lunga spirale di sofferenza, fatta di delusione, tristezza, rassegnazione, paura e rabbia. Le conseguenze nel corso del tempo possono essere molto gravi per le persone coinvolte: frustrazione del bisogno fondamentale di intimità legato alla relazione sentimentale, senso di fallimento, depressione, conflitti e violenze. (7)
Posso verificare se sto “giocando” semplicemente notando se attribuisco all’altro la responsabilità del mio benessere/malessere
Facciamo un esempio. Spesso ci dicono, soprattutto gli uomini, che il problema della coppia è che lei non è mai contenta. A volte lui è ancor più contrariato, perché non sopporta di vedere che lei continua a mettersi nelle condizioni di stare male, senza seguire i suoi consigli. Tutto sembra dipendere da lei. È naturale per chi ama desiderare che il partner sia felice. (8) Quando c’è una relazione sentimentale è bello e sano che il suo problema sia motivo di particolare attenzione anche per me. Ma qui è essenziale osservare la qualità dell’emozione e/o la reazione comportamentale che questo mi provoca. Se mi sento interessato e disponibile per fare qualcosa che ti faccia stare meglio è un conto (9), molto diverso se mi sento contrariato, in collera, se cerco di manipolare il tuo comportamento, se mi sento arrabbiato, se divento critico, aggressivo, se la tua difficoltà diventa motivo di conflitto nella relazione. In questo caso è molto probabile che si stia vedendo il Sole che gira intorno alla Terra. Le avversità esistono per tutti e ognuno deve farne esperienza, confrontandosi con i propri limiti e le proprie risorse, ivi compreso il saper chiedere e saper ricevere aiuto. Che l’altro abbia un problema e non abbia ancora elaborato il modo migliore di gestirlo, non giustifica -come molti credono- avversione, risentimento o rabbia nei suoi confronti. L’amorevole sollecitudine per la sofferenza degli altri -che in pali viene chiamata karuŋā – si manifesta, nella relazione sentimentale tra adulti, anche attraverso il riconoscere all’altro il diritto di misurarsi con le proprie possibilità ed i propri limiti, senza privarlo della libertà di sbagliare e di soffrire. (10)
PRENDERSI LA PIENA RESPONSABILITÀ DEL PROPRIO BENESSERE
Il desiderio di modificare il comportamento del proprio partner è paragonabile a un’altra testa di drago, che sputando fiamme ci impedisce di andare avanti. Quando capiamo che stiamo agendo secondo questa modalità, possiamo lasciarla andare e spostare piuttosto la nostra attenzione dalla difficoltà del partner alla nostra. Compiamo così una rivoluzione copernicana e ci riprendiamo la piena responsabilità del nostro benessere/malessere. Anziché occuparci di cosa fa l’altro, possiamo tornare a noi stessi e scoprire, ad esempio, che ci è difficile accettare di non poter influire più di tanto sulla sua vita, di non poter sempre evitare a noi stessi, e tantomeno all’altro, il contatto con la sofferenza, né possiamo rendere il nostro partner sempre felice. Possiamo vedere che tutto questo ci mette a disagio e ci può far sentire inadeguati, impotenti, fragili e spaventati. Stiamo quindi iniziando a vedere la nostra difficoltà a rapportarci con la difficoltà dell’altro. Ossia cominciamo a guardare all’esperienza senza più capovolgerla. (11)
Possiamo addirittura iniziare a chiederci se gli aspetti del partner che ci disturbano di più non siano piuttosto un riflesso di un nostro malessere, ancora non pienamente riconosciuto. Una sorta di proiezioni su specchi. Ad esempio, potremmo scoprire di essere contrariati dalla sofferenza dell’altro, perché abbiamo difficoltà ad accettare la nostra stessa sofferenza; di essere contrariati dalla sua incapacità di porre dei sani confini verso gli altri, perché anche noi non riusciamo a farlo e cosi via. Da questa visione non più capovolta, possiamo finalmente smettere di aspettarci che l’altro debba dare sollievo alla nostra ansia e l’altro, così alleggerito dalle nostre paure e aspettative, può prendere in considerazione di fare altrettanto, ossia smettere di prendersela con noi per le sue difficoltà!
A questo punto abbiamo fatto un grande percorso (12) e siamo arrivati alla testa del drago più spaventosa. Ci sentiamo male… anche più di prima, è vero. Perché ora sentiamo tutta quell’ansia, quel malessere che ci portiamo dentro, non vogliamo più scaricarlo sull’altro, ma non sappiamo come fare e, soprattutto, cosa farne. È come sentire sulla pelle le fiamme che fuoriescono dalla gola del mostro. Sì, perché, fino a quando non inizia una profonda trasformazione, non è piacevole tenere il nostro dolore nel fuoco dell’attenzione. Le abitudini non si cambiano facilmente, non solo perché rafforzate dal tempo, ma soprattutto perché -come abbiamo visto- hanno sempre delle buone ragioni per esistere. Le buone ragioni sono il segreto da carpire, le chiavi di accesso alla trasformazione.
Solo se ci rivolgiamo a sentire queste ragioni e ci confrontiamo con tutte le parti di noi stessi che le sostengono, possiamo elaborare una convinzione esperienziale e rigorosamente personale circa l’opportunità di modificare alcune abitudini, dato che desideriamo stare meglio. Una convinzione che non si fondi soltanto su un ragionamento astratto, ma sul riconoscimento e sulla elaborazione completa dell’esperienza, che comprende, da un lato, il nostro modo abituale di pensare, di sentire e di comportarci, dall’altro, appunto, le buone ragioni. Ovvero i nostri bisogni essenziali che cercano espressione attraverso quei comportamenti e poi la consapevolezza che ora possiamo attingere a risorse personali più ampie per gestire in modo più efficace quei bisogni. (13) È qui che dovremo arrivare, con una pratica ampia, profonda e duratura.
Grazie alla consapevolezza è possibile l’elaborazione di molti dati nuovi e la comprensione genera la necessità del cambiamento. La nostra più profonda inclinazione verso il bene può operare con tanta più efficacia quanto più disponga, grazie alla consapevolezza, di informazioni vaste e profonde. (14) In effetti, si tratta di sostituire la precedente convinzione esperienziale con una nuova. È come fare l’aggiornamento del sistema operativo, ci sono da rielaborare molti file di sistema, dopo una analisi più completa dell’esperienza, per approfittare delle più ampie competenze acquisite. È necessario entrare nell’esperienza in tutte le sue articolazioni, includendo diversi aspetti di noi stessi e profondità, incontrando livelli meno superficiali e meno facilmente visibili. Cercando di non escludere nulla. Perché quello che rifiutiamo dovrà trovare altri modi per essere vissuto, modi indiretti, inconsapevoli, non coscientemente elaborati e quindi ben più pericolosi per noi e per gli altri. Serve tempo (15) perché le situazioni, nella maggior parte dei casi, si rivelano poco a poco. Per stare all’esempio di prima, possiamo iniziare ponendoci domande di questo genere: “Adesso che la sento, cosa posso fare per alleviare questa sensazione di inadeguatezza che provo quando vedo il mio partner in difficoltà? Di cosa avrei bisogno per stare meglio?”. La prima risposta potrebbe essere, ad esempio: “Avrei bisogno di prendermi cura di me stesso, riconoscere e coltivare le mie qualità, per apprezzarle e sentirmi a posto nonostante i limiti inevitabili della mia possibilità di aiutarla a stare bene”. Ho iniziato a vedere le cause della difficoltà ad un livello più profondo: non riesco a darmi quello che mi serve per stare bene, perché non ho fiducia nelle mie qualità e mi preoccupo troppo di compiacere.
Questo modo di procedere costituirà un percorso di conoscenza di noi stessi, attraverso l’incontro con l’altro, per capire cosa ci impedisce di esprimerci pienamente e liberamente, di soddisfare i nostri più autentici bisogni e desideri.
Manteniamo dunque l’attenzione su questa difficoltà con molto interesse e cura, sul materiale di cui è fatta. Esercitiamo la consapevolezza, cominciamo a distinguere quello che emerge, le diverse parti di noi stessi, con i loro pensieri, immagini, esperienze, ricordi, emozioni, bisogni, come separando il grano dal miglio e dalla crusca.
Praticando la calma concentrata, diamo la possibilità a contenuti più profondi, non facilmente accessibili, di emergere nella sfera della nostra attenzione. Così, aprendoci ad accogliere l’ampiezza e la profondità della nostra esperienza, impariamo a conoscerci meglio e a capire cosa sia più utile donare a noi stessi. Ad esempio, di passo in passo, possiamo scoprire che il bisogno di compiacere si collega alla paura di essere abbandonati e quest’ultima si collega al bisogno di sentirci degni di essere accettati, di sentirci a posto, di sentire che, per gli altri, e soprattutto per noi, andiamo bene così come siamo.
Stiamo percorrendo un nobile sentiero, ovvero ci stiamo prendendo la piena responsabilità della nostra esperienza, senza eludere le difficoltà.
RICONOSCERE IL BAMBINO, ATTIVARE L’ADULTO
Abbiamo visto che uno degli ostacoli più ricorrenti è che prenderci cura delle nostre attuali difficoltà appare difficile, frustrante, doloroso. (16) Quindi cerchiamo modi per evitare queste esperienze negative. E cosa c’è di meglio che cercare di scaricare il problema sull’altro o su altri? È la strategia vincente del bambino che si aspetta che siano i genitori ad alleviare i suoi problemi e soddisfare i suoi desideri. Passare da questo atteggiamento “comodo”, da bambino, al prendere in carico su di sé i problemi, cioè assumere un atteggiamento da adulto, non sembra molto conveniente. Ma c’è un inganno, la realtà, anche in questo caso, è diversa da quanto appare a prima vista.
L’atteggiamento da bambino è comodo e rassicurante, ma anche dipendente e passivo. Il bambino non ha ancora pronte in sé tutte le risorse per prendersi cura e soddisfare da solo i suoi bisogni. Deve appoggiarsi sulle risorse dell’altro e in questo modo soltanto può trovare sollievo e sicurezza, per lui è naturale che sia così. Invece, ogni adulto ha -molto più di quanto spesso si pensi- delle risorse specifiche che rendono preziosa ogni persona nella sua originalità, il nostro compito è scoprirle ed imparare ad usarle.
L’Universo (il Signore, per chi crede) assegna dei talenti diversi ad ogni persona e vuole che ogni persona usi il più possibile quelli che ha avuto in dono. (17) Nell’essere attivi c’è la vita. Spesso il malessere depressivo è da ricondurre alla difficoltà di riconoscere e riuscire ad esprimere pienamente tutte le nostre risorse, il nostro modo individuale di prendere parte alla vita. (18) Le difficoltà diventano allora uno stimolo ad agire, ad essere vivi, una occasione preziosa per andare a scoprire le nostre potenzialità ancora inespresse e il nostro modo originale di esserci. Le difficoltà rappresentano un’occasione per prenderci cura di noi e degli altri, ovvero per amare. Questa è una autentica via al benessere, non superficiale, non effimera, non instabile, non dipendente da fattori esterni. La pratica della meditazione, nutrita da insegnanti qualificati, è uno strumento fondamentale, al quale si può aggiungere il confronto ben strutturato con esperti, in contesti individuali o di gruppo.
Non prenderci cura delle nostre difficoltà, aspettare che lo facciano altri al posto nostro, equivale a perdere una occasione per sentirci autenticamente più soddisfatti, più pieni, più fiduciosi e orgogliosi di quello che siamo e di quello che possiamo fare, di realizzare i nostri talenti, esprimere tutta l’energia della vita che attende di potersi manifestare attraverso di noi e quindi il motivo più profondo per il quale siamo al mondo. Occuparci della nostra sofferenza diventa il sommo bene.
NOTE
1. Corrado Pensa, in Sati n.1/2015, p. 3 e ss.
2. Ivi, p. 4.
3. La citazione del maestro tibetano Traleg Kyabgon è tratta da Corrado Pensa in op.cit. p. 4. Le tre qualità sono le stesse insite nella pratica cristiana di portare la croce: profondità = asse verticale; ampiezza = asse orizzontale; durata = portare la croce per tutto il percorso; vedi Anonimo, Imitazione di Cristo, Rizzoli, Milano, 1994.
4. Infatti, nella leggenda, il padre di Siddharta, quando il figlio non era ancora adulto, faceva in modo di evitare che incontrasse la sofferenza, simboleggiata da malattia, vecchiaia e morte. Arriva però il momento in cui per Siddharta l’incontro con la sofferenza è di fondamentale importanza al fine di avviare il suo percorso di piena realizzazione.
5. Per semplificare, la parte inconsapevole potrebbe essere chiamata Bambino, la parte consapevole Adulto. I progressi delle neuroscienze consentono di intravedere interessanti corrispondenze tra le diverse modalità di rapportarsi all’esperienza e le molteplici parti del nostro sistema nervoso, con le loro diverse competenze funzionali e diversi gradi di evoluzione: rettiliano, limbico, corteccia, neocorteccia, cfr. ad es. Daniel J. Siegel, La Mente Relazionale, Raffaello Cortina Editore, Milano 2001, pag. 10 e ss.
6. L’uso del verbo giocare, in questo contesto, allude chiaramente al coinvolgimento di parti interiori tipiche del Bambino, ed è preso dal classico di Eric Berne, A che gioco giochiamo, Milano, 1967.
7. La violenza qui si intende non solo fisica, ma anche di tipo morale e si può esprimere indifferentemente contro altri e/o contro di sé.
8. Nel buddismo Theravāda, si attribuisce molta importanza all’espressione incondizionata dell’amore, in sanscrito mettā, la prima delle Quattro Dimore Divine della mente.
9. Quando l’amore si rivolge a chi soffre prende il nome di compassione, in pali karuŋā, la seconda delle Quattro Dimore Divine della mente, vedi Corrado Pensa e Neva Papachristou in Dare il cuore a ciò che conta. Il Buddha e la meditazione di consapevolezza, Milano, Mondadori 2012, capitoli XVI e XVII.
10. “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. “Non giudicate, perché così sarete giudicati”.
11. La consapevolezza come rivoluzione copernicana, vedi Neva Papachristou, La rivoluzione della pratica: una rivoluzione copernicana, in Dare il cuore a ciò che conta. Il Buddha e la meditazione di consapevolezza, Milano, Mondadori 2012, pag. 111 e ss.
12. Ho incontrato una difficoltà significativa (sofferenza), ho visto che non è salutare credere che dipende da Te (giocare a scarica barile), ne ho sentito il sapore, ho iniziato a vedere da dove viene (cause) e che posso stare molto meglio se riesco a cambiare quel modo abituale di comportarmi (cessazione delle cause). Le Quattro Nobili Verità, come è noto, sono: esiste la sofferenza (riconoscere la sofferenza), esistono le cause della sofferenza, è possibile la cessazione delle cause della sofferenza e il sentiero che conduce alla cessazione delle cause della sofferenza, vedi Ajhan Sumedho: Le Quattro Nobili Verità, Associazione Santacittarama, Rieti, 1999, pag.11 e ss., e nel Samyutta Nikaya, a cura di Claudio Cicuzza in Buddhismo, Testi Antichi, Milano, Mondadori, 2001, pagg. 71 e ss..
13. È fondamentale, a nostro parere, portare la visione chiara e profonda della consapevolezza anche sui bisogni, soprattutto per distinguere quelli surrogatori da quelli essenziali. Il tema dei bisogni è a nostro avviso fondamentale e, quindi, merita di essere maggiormente approfondito in seguito. Intanto, per una tra le più accreditate teorie dei bisogni, si può vedere la piramide di Maslow in Abraham Maslow, Motivation and Personality, New York, Harper & Row, 1954.
14. Secondo molti autori c’è nella psiche una forza innata per la quale il benessere è una necessità legata al nostro percorso evolutivo, Eric Berne aveva avuto delle intuizioni su questo e la chiamava Phisis, cfr. Eric Berne, The Mind in Action, ed. Simon and Schuster, New York 1947. Alcuni ricercatori italiani, molto apprezzati all’estero, a partire dagli studi del matematico italiano Luigi Fantappiè, ipotizzano l’esistenza di una legge fisica di attrazione verso il bene, chiamata sintropia, che farebbe da contrappeso alla legge dell’entropia: vedi Ulisse Di Corpo e Antonella Vannini, Syntropy The Spirit of Love, ICRL Press, Princeton (New Jersey USA) 2014; e altri numerosi articoli su questo tema in www.sintropia.it.
15. Una pratica ampia, profonda e duratura, vedi sopra nota 3.
16. Più facile per chi sa lasciarsi alle spalle l’orgoglio e non teme di riconoscere “sì, è vero, attualmente questo è uno dei miei limiti con il quale voglio confrontarmi per crescere ancora”.
17. Nel linguaggio cristiano rispondere alla propria vocazione, vedi Thomas Merton, Nessun Uomo è un Isola, Milano, Garzanti, 1998, p.144 e ss..
18. Chi rinuncia a ogni speranza di avere una vocazione nella vita ha perduto ogni speranza di felicità Thomas Merton, op. cit. pag. 153.
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